Rivolta Pride #moltopiudizan

3 luglio 2021
Villa Angeletti
h 14.30 concentramento
h. 16.30 partenza corteo
PERCORSO: via de’ Carracci, Via Fioravanti, Via Tiarini, Via Matteotti, via Indipendenza, via Irnerio, Porta S. Donato, Viali Giardini, Margherita.
IL DOCUMENTO POLITICO
Siamo collettivi, associazioni, attivistə che lottano contro l’omesbobitransfobia in diverse forme ogni giorno dell’anno. Siamo scese in piazza il 16 maggio 2021 per rispondere alla proposta di legge nazionale contro l’omolesbobitransfobia, la misoginia e l’abilismo: abbiamo scritto e manifestato ponendo l’accento sui reali bisogni materiali e contro gli scambi politici sui nostri corpi. Abbiamo aderito alla piazza nazionale del 15 maggio e organizzato la piazza di Bologna sotto lo slogan #moltopiudizan, respingendo gli attacchi contro le nostre esistenze. Abbiamo preso parola a partire dalle differenze espresse dalle nostre sessualità e generi dissidenti, come persone con disabilità e siero-coinvolte. Per anni siamo state divisə in un binarismo politico che ci dipingeva come “istituzionali” o “antagoniste” a seconda dell’occorrenza, ma oggi siamo consciə che tale dicotomia risulta ormai obsoleta.

Siamo sempre noi, che, dagli spazi occupati all’ erogazione di pubblici servizi, diamo centralità alla cura nella nostra pratica politica e rifiutiamo ogni essenzializzazione che ci dice dove dobbiamo stare, anche politicamente.
Per noi Rivolta Pride significa innanzitutto un modello organizzativo che sia realmente partecipato, che costruisca un percorso politico di ascolto e confronto a partire dalla democrazia diretta e dalle esigenze multiformi della nostra comunità. Rivolta Pride è innanzitutto la presa di parola, tanto nella costruzione della manifestazione, quanto nello spazio pubblico, per rivendicare che ora delle nostre vite parliamo noi!
La legge contro l’omolesbobitransfobia, la misoginia e l’abilismo va approvata senza nessun passo indietro, ma non può essere che un punto di partenza per garantire ulteriormente le nostre esistenze. Chiediamo molto più di Zan: desideriamo e abbiamo diritto all’accesso alla salute, a un reddito di autodeterminazione, alla cittadinanza e al permesso di soggiorno svincolati dalla famiglia e dal lavoro.
Il 3 Luglio sarà un Pride di Rivolta a Bologna: contro la violenza sistemica e la reazione catto-femonazionalista che sta rallentando il dibattito sui diritti sociali, civili ed economici della comunità LGBTQIA+ e di tutte le altre realtà marginalizzate soggette a discriminazione.
Ci siamo unitə in un periodo cruciale. Quest’anno abbiamo assistito a una recrudescenza della violenza nei confronti della nostra comunità, il che richiede una presa di parola ancora più forte.
Bologna viene spesso descritta come la città più “vivibile” e libera per le persone LGBTQIA+, storicamente meta di migrazioni interne e non, proprio per questa “tolleranza”. Noi contestiamo questa narrazione perché anche qui siamo spesso precarizzatə, discriminatə, sfruttatə soprattutto quando migranti e denunciamo la mancanza di ulteriori spazi fisici di autodeterminazione, differenti e diversificati che siano spazi sociali, sedi e luoghi dove portare avanti le nostre iniziative.
Insieme alle donne e alle persone LGBTQIA+ che si stanno mobilitando in Turchia, in Europa dell’Est, in America Latina, e non solo, torniamo nelle strade per riempirle della nostra rabbia e dell’amore che muove la nostra lotta quotidiana contro questo attacco reazionario internazionale.
1. Vogliamo molto più del ddl Zan. L’omolesbobitransfobia è violenza sistemica, intrecciata alla violenza maschile, razzista e abilista. Quando parliamo di “intersezionalità” lo facciamo a partire dalle nostre vite materiali, dai nostri corpi su cui si abbattono discriminazioni di segno diverso ma con una matrice comune: il ciseteropatriarcato.
È dal riconoscimento di questa matrice comune di oppressione che è stato possibile connettere le istanze delle lotte femministe con quelle delle persone trans, froce, lesbiche, intersex e bisessuali e pansessuali: la violenza eterocispatriarcale è sistemica e capillare e si insinua in ogni ambito delle nostre esistenze; sono perciò necessarie lotte che fondano il personale e il politico, il locale e il transnazionale.
Gli attacchi che stiamo subendo sul piano internazionale, come donne e comunità LGBTQIA+, sono il risultato di una stretta alleanza catto-fascista e fondamentalista, omolesbobitransfobica e misogina che connette la Turchia, l’Ungheria, l’Italia, la Polonia, l’Europa dell’Est e non solo. Vediamo in questi Paesi il concretizzarsi di leggi e prese di posizione istituzionali che minano fortemente i diritti di donne e persone LGBTQIA+ conquistati in tutti questi anni, costruite su una retorica femonazionalista, omonazionalista e familista che vuole le donne come madri e mogli e vuole gay,lesbiche, persone bisessuali, pansessuali e trans e non binarie normate secondo canonici standard. Il 1° luglio con Non Una Di Meno, all’interno della cornice della Settimana Transfemminista, siamo scesə in piazza contro la decisione del Presidente della Turchia Erdogan di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul, fondamentale strumento legislativo per promuovere politiche di contrasto alla violenza domestica.
Sappiamo bene che i livelli di oppressione sono interconnessi, agiscono simultaneamente e non sempre sono visibili: la violenza sistemica che viviamo produce discriminazione strutturale nei luoghi di lavoro, d’istruzione, di accesso alla salute e alla giustizia riproduttiva, nelle carceri, nei tribunali e nelle case.
Vogliamo rompere questa discriminazione strutturale, perché ci vogliamo vivə e vogliamo autodeterminare pienamente le nostre vite. Non Una Di Meno!
2. Vogliamo corsi obbligatori per contrastare l’abilismo rivolti alle scuole, agli uffici pubblici e soprattutto alle forze dell’ordine. Il Ddl Zan non ci basta perché l’abilismo è sistemico e non basta punirlo con un provvedimento penale, ma occorre un cambiamento culturale.
Il sistema in cui viviamo è fondato su un modello abilista dominante che genera discriminazione verso le persone con disabilità (pcd) e/o neurodivergenti e/o con malattia cronica. L’abilismo consiste nelle pratiche e negli atteggiamenti che danno per scontato che i corpi, i sensi, le attitudini cognitive siano abili, dove l’abilità è un concetto circoscritto a canoni di conformità stabilita.
La cultura abilista marginalizza le vite e i corpi delle persone con disabilità, le invisibilizza, non mette in atto strategie per abbattere barriere o evitare di costruirle, nega la libertà di scelta, il diritto all’autodeterminazione e a una vita indipendente da persone adulte.
Questa violenza sistemica agisce rendendo le pcd solo oggetto di politiche assistenzialistiche in cui il sistema di welfare prevede la presa in carico da parte di istituti religiosi, o delle donne (o socializzate tali) della famiglia o la reclusione in istituti (veri luoghi di segregazione).
In questo contesto sono oppressi il desiderio sessuale, la libertà di esplorare e esprimere la propria identità di genere e di orientamento sessuale. Le persone con disabilità LGBTQIA+ subiscono oppressioni e discriminazioni multiple.
Siamo persone LGBTQIA+ e persone con disabilità, pensiamo che lo stato vaticano e chi porta quelle istanze all’interno delle istituzioni siano tra i nostri grandi oppressori.
Ci interroghiamo su quanto siano l’ambiente sociale e gli spazi che noi stesse attraversiamo ad essere responsabili della disabilitazione di una persona con disabilità e/o neurodivergente e/o con malattia cronica.
Ci interroghiamo su quanto le rivendicazioni del movimento LGBTQIA+ e del movimento delle persone con disabilità abbiano molti punti in comune perché i corpi delle persone con disabilità sono corpi queer, perché siamo tutte soggettività non conformi che rompono un modello patriarcale che ci vuole tutte persone abili, belle, bianche, etero, carnivore, produttive e consumiste. Le soggettività LGBTQIA+ e disabili (considerate non produttive) condividono anche la difficoltà all’accesso al lavoro, allo sport.
Ci impegniamo a interrogarci sulle nostre azioni, a costruire e vivere in spazi accessibili fisicamente, adottare linguaggi e strumenti che rendano accessibili i nostri contenuti politici e le informazioni (su diritti civili, salute, malattie sessualmente trasmissibili, ecc.). Sosteniamo il riconoscimento e l’istituzione della figura dell’operatore e operatrice all’emotività, all’affettività e alla sessualità.
3. Vogliamo educazione al genere, alla sessualità, all’affettività e al
consenso, contro la violenza di genere, razzista e abilista, in tutte le scuole. Sono anni che comitati di genitori e insegnanti nogender ostacolano ogni tipo di intervento volto a mettere in discussione un modello binario, eterosessista, abilista ed eurocentrico, con il benestare delle Linee Guida ‘Educare al Rispetto’ del Ministero dell’istruzione, dove esplicitamente si fa riferimento all’esclusione dell'”ideologia gender” dalle scuole. Denunciamo con forza la strumentalità di questo concetto di “gender”, utilizzato esclusivamente per minare la nostra libertà di autodeterminazione fin da bambinə. Ogni giorno leggiamo sui giornali di ragazzə aggreditə, bullizzatə. Leggiamo anche di chi non ce la fa più a reggere la violenza costante, come Seid Visin e Orlando Merenda. Per loro e per noi il 17 Maggio è ogni giorno. Troppe volte scorgiamo in noi stessə, nellə ragazzə un disagio profondo causato dalla violenza sistemica che attraversa anche il mondo educativo.
Pensiamo che i saperi siano uno dei fondamenti della riproduzione della società tutta così come la modalità di trasmissione degli stessi, narrata come neutra e invece profondamente ideologica. Vogliamo saperi situati, posizionati e orientati alla decostruzione del nostro quotidiano in tutte le sue contraddizioni. Non vogliamo più ostacoli ai progetti che danno visibilità all’antirazzismo e a prospettive di genere, anzi chiediamo di più: una revisione dei curricula, dei programmi, dell’educazione civica (ultima novità del sistema scolastico).
Vogliamo la possibilità di accedere alla carriera alias in tutti i percorsi formativi, con attenzione a non riprodurre sistemi patologizzanti. Sono troppi gli esempi di “accordi” con istituzioni universitarie dove ancora si parla di diagnosi di “disforia di genere”. Vogliamo iter agili e non patologizzanti.
4. Chiediamo che l’universalità nell’accesso alla salute sia accompagnata dall’universalità nella fruizione per le persone Sieropositive, per le persone disabili, per le donne, per le persone trans e per le lesbiche. Vogliamo un superamento della legge 164/1982 sulla base del consenso informato: come persone trans rifiutiamo la diagnosi di una patologia inesistente e il passaggio di validazione delle nostre vite in un tribunale. Chiediamo l’accesso alla PreP su tutto il territorio nazionale e la completa gratuità. Rifiutiamo l’abbandono della prevenzione e cura dell’HIV e delle Malattie Sessualmente Trasmissibili, gli ostacoli all’accesso all’aborto e alla genitorialità queer*, l’eterosessualità come unico orizzonte narrativo quando abbiamo bisogno di ginecologə,
andrologə o qualsiasi specialista che sappia rispondere a bisogni specifici; abbandoniamo la relazione gerarchica medico-paziente per promuovere sapere diffuso sulla nostra salute: sono decenni che accumuliamo competenze tra le lacune della medicina ufficiale.
5. Vogliamo che lə nostrə figliə siano tutelatə e sostenutə a prescindere dall’identità di genere e/o dall’orientamento sessuale dei loro genitori. La genitorialità è una scelta che, come tale, deve essere riconosciuta anche dalla legge, anche quando non si basa sul legame biologico. Abbiamo famiglie e relazioni differenti, queer, che non possono essere ignorate dallo Stato.
6. Vogliamo reddito di autodeterminazione: l’emancipazione economica è fondamentale per tuttə, soprattutto per le soggettività più marginalizzate in questa società patriarcale. Non è possibile fuoriuscire da situazioni di violenza se si è tenutə in condizioni di povertà.
I collettivi, le reti e le associazioni LGBTQIA+ bolognesi che hanno dato vita al Rivolta Pride di quest’anno, assieme al movimento globale femminista e transfemminista Non Una di Meno, rivendicano a gran voce un reddito di autodeterminazione svincolato dall’impostazione familista, produttivista e colonialista in cui sono intrappolate le politiche di contrasto alla povertà in Italia.
Riconosciamo l’attuale sistema economico come uno dei principali motori dello sfruttamento delle nostre vite. Il ricatto del lavoro salariato e l’invisibilizzazione del valore prodotto dal lavoro di cura e riproduttivo sono i mezzi con i quali si riverbera lo sfruttamento delle classi marginalizzate e si acutizza quello delle donne e delle soggettività femminilizzate e razzializzate. La pandemia che stiamo vivendo ha sortito effetti materiali devastanti nelle nostre vite, peggiorando di gran lunga quel costante senso di incertezza e dipendenza in cui già versavamo: le politiche neoliberali che hanno gestito questa pandemia ci hanno esposto maggiormente a situazioni di violenza domestica, economica, psicologica e razziale.
Nel dicembre 2020 su 101.000 posti di lavoro persi, 99.000 erano occupati da donne; il tasso di disoccupazione sale all’80% se si tratta di donne trans. In Italia più di 2 milioni di donne vivono sotto la soglia di povertà.
Ci hanno detto che il nostro lavoro è essenziale, che non potevamo fermarci, che dovevamo continuare a produrre senza sosta a costo della nostra stessa vita: è recente la notizia della morte di Luana, giovane operaia di Prato. A questa narrazione dell’essenzialità della produzione abbiamo risposto che ad essere essenziali sono le nostre lotte e la loro visibilità!
Le richieste di fuoriuscita da relazioni violente durante la pandemia sono aumentate ovunque vertiginosamente: come femministe e transfemministe sappiamo bene quanto la casa non sia un luogo neutro, ma è anzi il primo in
cui si sostanziano le gerarchie di potere dovute alla divisione sessuale del lavoro e alla messa a valore del genere nei processi di sfruttamento che coinvolgono ogni livello delle nostre vite.
La violenza economica è uno strumento di controllo strutturale e individuale, un problema che non è mai stato affrontato adeguatamente. Le risposte date sono sempre state insufficienti, mentre la nostra rivendicazione in merito allo svincolo dalla violenza economica è da sempre stata chiara: reddito di autodeterminazione e diritto di cittadinanza e permesso di soggiorno svincolato dalla famiglia e dal lavoro e da qualsiasi altra forma di condizioni di dipendenza.
In questo contesto di violenza classista, il Reddito di cittadinanza è stato utile ma non sufficiente, e pertanto rivendichiamo un reddito di autodeterminazione universale, che ponga al centro il tema del superamento del lavoro obbligatorio, del superamento della concezione del salario come prodotto di una mansione all’interno di un luogo predeterminato e quindi si pone al di là del lavoro. Rivendichiamo un reddito di autodeterminazione incondizionato, slegato dal lavoro, dalla famiglia e dalla cittadinanza.
7. Vogliamo centri antiviolenza e consultori gestiti dalla comunità di riferimento delle persone che subiscono violenza, percorsi di fuoriuscita anche per minori discriminatə per la loro identità di genere o per la loro sessualità, case rifugio per persone LGBTQIA+, co-housing intergenerazionli e mirati alla comunità che invecchia. Vogliamo sempre più servizi costruiti e gestiti da chi i bisogni li intercetta quotidianamente. I bisogni delle persone LGBTQIA+ sono infatti specifici e spesso non trovano risposte adeguate nel sistema di welfare statale e parastatale. Ciò è ancora più vero quando queste persone vivono condizioni di marginalità sociale e fragilità economica. Condizioni che la pandemia ha reso ancora più gravi e precarie, andando a delineare uno scenario in cui, alla luce di uno smantellamento graduale e costante della risposta pubblica, diventa indispensabile il ricorso a sistemi complementari di tutela, cura e sostegno: un sistema di welfare capillare e diffuso, di prossimità, con servizi pensati espressamente, per esempio, per le persone LGBTQAI+ senza dimora o in emergenza abitativa, in terapia anti- retrovirale o in trattamento ormonale sostitutivo, che stanno invecchiando o che sono sottoposte a stress psico-fisico perché le loro specificità non sono contemplate nei contesti in cui vivono e lavorano, che subiscono violenza nelle famiglie o nei paesi d’origine, costrette a migrare e ammassate in spazi privi di umanità. Tantissime sono le declinazioni della marginalizzazione che la nostra comunità è costretta a subire strutturalmente da un sistema di welfare inadeguato, per il quale le nostre identità e i nostri bisogni sono quasi sempre invisibili, dettagli trascurabili.
8. Vogliamo permessi di soggiorno slegati dal lavoro e dalla famiglia, reali e diffusi, servizi per persone LGBTQIA+ rifugiatə e accesso alla cittadinanza.
9. Rifiutiamo la violenza della polizia e la violenza istituzionale, in ogni pubblico ufficio, che colpisce in particolare persone razzializzate, persone trans e sex worker.
10. Vogliamo la decriminalizzazione del lavoro sessuale. Rivendichiamo il diritto al lavoro sessuale, autorganizzato, autogestito e libero dallo sfruttamento, dai confini e dalle ordinanze repressive che perpetuano la violenza e lo stigma sulle nostre vite. Chiediamo la decriminalizzazione delle politiche migratorie e non solo delle leggi del lavoro sessuale.
Tutti i sistemi repressivi e restrittivi che portano alla criminalizzazione parziale diretta o indiretta del sex work rendono le sex workers i soggetti più esposti alla violenza, allo stigma ed alle discriminazioni.
11. Vogliamo contrastare ogni forma di Pinkwashing insieme alla comunità LGBTQIA+ Palestinese!
In una prospettiva decoloniale abbiamo visto come il modello Israeliano di Pinkwashing sia rivolto alla comunità LGBTQIA+ per costruire un’immagine progressista e democratica e coprire così le politiche di segregazione e occupazione coloniale del popolo palestinese. Abbiamo visto in ogni parte del globo l’oppressore narrarsi come oppresso: leggiamo quindi di palestinesə terroristə, in una retorica che narra la violenza coloniale sionista come un contrasto simmetrico; lo vediamo quando la frocia viene attaccata come pericolo distruttivo per la famiglia “naturale” e le basi “naturali” della civiltà; l’abbiamo visto in Francia con l’ennesimo attacco a chi vuole interrompere la (ri)produzione di saperi violenti, islamofobi e coloniali, fino a produrre la categoria di “islamogauchisme” .
Tale dispositivo retorico è in realtà profondamente politico nella misura in cui ogni forma di dissenso e di critica allo status quo viene tacciata con l’etichetta “terrorismo”, soprattutto dopo l’11 settembre.
Le persone queer palestinesi dentro Israele e nei territori occupati, ci hanno insegnato che è possibile resistere contro l’occupazione e allo stesso tempo combattere l’eterocispatriarcato nelle proprie comunità.
In un momento in cui la comunitə palestinese è ancora sotto attacco militare da parte di Israele sosteniamo le lotte queer per il Boicottaggio Disinvestimento Smantellamento e denunciamo il tentativo israeliano di guadagnarsi il favore della comunità LGBTQIA+ mondiale, in particolar modo quella parte di mondo che definiamo occidente.
In una prospettiva decoloniale rigettiamo la visione universalizzante delle identità LGBTQIA+ mainstream e la loro progressiva globalizzazione e siamo
a fianco di ogni resistenza e creazione di sessi, generi, sessualità non conformi dentro e fuori le categorie occidentali, in ogni contesto culturale e religioso, e combattiamo il binarismo civiltà/barbarie che viene utilizzato per squalificare e stigmatizzare culturalmente il proprio nemico.
Rifiutiamo ogni convergenza omonazionalista tra le istanze nazionali e quelle di integrazione delle persone LGBTQIA+, che intrecciano omonormatività, razzismo e violenza istituzionale. Abbracciamo prospettive transnazionali di liberazione transfemminista queer.
12. Vogliamo auto-rappresentarci: vogliamo spazio e ascolto. Siamo stanchə di sentirci parlare addosso e di vedere le nostre voci sovrastate da persone eterocisgender! Lottiamo per costruire ambienti liberi dalla cultura dello stupro, dal machismo, dall’abilismo, dal razzismo, dall’odio per le persone LGBTQIA+. Ora più che mai abbiamo bisogno di nuovi spazi transfemministi in città in cui praticare accoglienza, scambio e mutualismo.
13. Vogliamo un pride che riparta dai margini della città e dello Stato:
Questo Pride ha scelto e rivendicato la periferia come luogo di partenza. Una partenza non simbolica perché moltə di noi vivono queste periferie e non un centro sempre più escludente, perché molte di noi vengono dalle periferie di questo Paese: dalle Alpi e dalle isole, dai margini di un Paese che non ha fatto ancora i conti con la sua diseguaglianza interna.
Come froce meridionali e/o di provincia ci sembra importante ribadire anche l’importanza di un ragionamento intersezionale su questo tipo di violenza.
Se il welfare di questo Paese viene sempre più sforbiciato, come si sopravvive nel nostro Sud? Come ci insegna NUDM quando non vi è lo Stato, subentra la Famiglia come erogatore di prestazioni e servizi inerenti alla riproduzione sociale ovvero l’esistenza stessa delle persone. Noi froce e persone LGBTQIA+, anche secondo i media, siamo ciò che mette in discussione questa idea di famiglia. Ebbene nei nostri Sud un attacco alla famiglia andrebbe a costituire un attacco alla fonte primaria di esistenza: questo non giustifica ciò che subiamo ma sposta il focus da una narrazione egemonica che vorrebbe il nostro Sud come più “incivile”. Attenzione quando usiamo questa parola: perché viene usata sulla pelle de* migranti, viene usata anche sulla nostra!
A Bologna, al Nord, moltə di noi sono un po’ meno froce, ma sono diventatə terronə e sono rimaste incivili!
Ripartire dai margini significa affermare che subiamo i processi di gentrificazione in una città in parte appaltata al privato del turismo e dove viviamo un esponenziale aumento del costo della vita.
Se la nostra marginalità ha diverse forme, noi le rivendichiamo tutte!
Con i nostri corpi, le nostre vite, che spazialmente dai margini dello Stato invadono il centro dobbiamo prendere parola!
14. Ogni orientamento sessuale è valido! Come persone queer e Bi+ di ogni genere viviamo uno stigma costante e siamo bersagliatə da chi è monosesuale perché stiamo fuori dal binarismo dell’essere o etero o gay/lesbiche. Affrontiamo anche la feticizzazione dei nostri corpi e delle nostre identità: ci si aspetta dalle persone non binarie una l’androginia o la pansessualità obbligatoria per soddisfare le proprie fantasie. Come accade anche per le donne bi e pan viste solo come una fantasia per coppie etero in cerca di avventure, o per essere il feticcio ad uso e consumo dello sguardo eteronormato. O che gli uomini bi+ non esistano e siano solo gay velati nascosti in relazioni etero. Ciò che accomuna queste narrazioni è l’implicita centralità del fallo, attorno cui deve ruotare il piacere. La bisessualità, come il lesbismo, mette in discussione questo fallocentrismo dell’immaginario sessuale. In un mondo cis-etero-monogamico la bisessualità e la pansessualità mettono in discussione la narrazione dell’anima gemella, che presuppone una sorta di essenzialismo psicologico secondo cui siamo deterministicamente destinata una persona nel mondo, con cui fondare una famiglia nucleare e riprodurci. E se non fosse la famiglia nucleare l’unico orizzonte possibile? Come persone lesbiche, bisessuali, pansessuali e asessuali siamo stanche di essere invisibilizzate e narrate come persone in qualche modo incomplete. Rivendichiamo visibilità e coinvolgimento di tutte le soggettività LGBTQIA+ nei processi politici riguardo le nostre vite!
15. Vogliamo che venga riconosciuta la lesbofobia come violenza sistemica e strutturale. La lesbofobia è violenza di genere che umilia, discrimina, stupra, uccide e si manifesta in ogni contesto della società.
Rivendichiamo un cambiamento culturale radicale che ci permetta di abitare un mondo privo dalle oppressioni eterocispatrarcali in cui sia possibile dirsi e essere gioiosamente lesbiche.
Ci vogliamo vivə, ci vogliamo liberə e autodeterminatə e vogliamo gridarlo tuttə insieme con un Pride politico e radicale!