B-Side PRIDE Piazza TFQ 27G 2020

Evento FB

Il B-Side Pride invita tutt* a costruire per il 27 giugno, in piazza
Nettuno alle 13.30, una piazza del Pride favolosa, antirazzista, intersezionale, degenere, puttana, frocia, lella e trans non binaria, sierocoinvolta.

COMUNICATO STAMPA:

Dopo aver già attraversato il Pride bolognese nel 2019 e dopo una lunga serie di iniziative avviate nell’ultimo anno e durante la pandemia, B -Side Pride torna in piazza per fare del Pride una manifestazione politica per i diritti civili e sociali delle persone LGBTIA+queer: l’appuntamento è sabato 27 giugno in piazza Nettuno alle 13.30. Si suseguiranno parole, musica, suoni, performance artistiche.
La rete di singol*, associazioni, collettivi, reti, migranti, richiedenti asilo, razzializzate, native e terrone, studentesse/i/, sieropositiv, sex worker, frocie, lesbiche, trans*, intersex, non binarie e transfemministe è nata per reinventare un movimento autorganizzato di liberazione di corpi, generi e sessualità. A partire da sé e dai bisogni delle soggettività costruiamo un’analisi e una pratica per opporci alla violenza strutturale eteropatriarcale attraverso una politica orizzontale, assembleare, autonoma, desiderante e non consociativa. Durante la pandemia e nella crisi che ha generato abbiamo agito solidarietà queer e mutualismo, distribuendo cibo, farmaci, risorse, connessione internet a quant* erano senza lavoro, senza reddito o isolat*.
Ora torniamo in piazza per rivendicare: un modello di salute pubblica basato su medicina territoriale e preventiva, con il coinvolgimento dei servizi community based; centralità della salute e della riproduzione sociale, contro la produzione e il profitto; una scuola pubblica in grado di educare alle differenze, alla salute e alle libere affettività; un permesso di soggiorno europeo slegato da lavoro e famiglia e lo ius culturae; maggiori interventi specifici per rifugiat* LGBTIQ+ che ne garantiscano libertà di autodeterminazione; il superamento della legge 164 sulla transizione per una piena depatologizzazione; interventi e risorse contro la violenza di genere e dei generi (non ci interessa un aumento delle pene ma piuttosto un cambiamento culturale e sociale). Siamo contro la violenza di generi e confini, vogliamo cambiare questo mond e ci uniamo al grido transfemminista intersezionale che si alza dal nord Africa al Rojava, dall’America Latina al movimento Black Lives Matter, alla Palestina.
Sarà una piazza safer, nel rispetto della salute e della cura collettiva, attraversabile da corpi diversamente vulnerabili, come condiviso nel coordinamento transfemminista queer 2020 Marciona che organizza iniziative Pride a Milano, Bergamo, Torino, Genova,nei loghi più colpiti dalla pandemia. Segneremo con creatività lo spazio consensuale tra i corpi, per rendere safer la piazza, riappropriandoci in forma queer dei dispositivi di protezione individuale in modo da trasformarli in tecnologie di prevenzione e autocura collettiva.

DOCUMENTO E CONVOCAZIONE DI PIAZZA:

Il #27G (e dintorni) è la data che abbiamo scelto in rete con >>

MMARCIONA: VERSO UN PRIDE TRANSFEMMINISTA QUEER

La pandemia e la crisi che ha generato hanno acuito la precarietà per tuttu, come queer (froce, lelle trans*, lgbtiq+, sex worker, rifugiat*, razzializzate) ci siamo ritrovat* invisibilizzate dalle retoriche e dalle politiche familiste e paternaliste con cui la crisi è stata gestita. Come queer ci mancano cose materiali e immateriali ugualmente essenziali: cibo, reddito, accesso alla salute, la socialità frocia, lo spazio pubblico, le piazze, il cruising, l’incontro dei corpi nello spazio pubblico, la comunità politica nella quale potersi riconoscere che no, non è la nazione bianca eterosessuale. Per questo sentiamo l’esigenza di connetterci, di agire mutualismo e solidarietà queer e di ricostruire, a partire dal #27G, uno spazio pubblico dove incontrarci e lottare insieme.

Per questo il #Pride diventa per noi più che mai l’Orgoglio per i nostri legami queer, che sono reti, sfamiglie, altre intimità, parentele spurie di affinità e resistenza, formazioni sociali che non riproducono la famiglia eterosessuale.

Prepariamo e agiamo da subito la lotta della vita contro il profitto,
della cura contro la selezione, del desiderio contro la paura e ci
connettiamo alle richieste di reddito di autodeterminazione, accesso alla salute pubblica per tutt*, diritto a lavorare in sicurezza,
autorganizzazione della cura e riconoscimento del lavoro di riproduzione sociale come centrale. Perché non si tratta di sperare in un ritorno alla normalità, che per noi era il problema, si tratta di ripensare le basi della ri/produzione sociale ed ecologica. Anche per questo ci sentiamo in connessione e aderiamo alla piazza di #NonUnaDiMeno del 26 giugno ✹ Torniamo nelle strade. Ci riprendiamo tutto ✹ Bologna

Siamo in piazza contro la violenza di genere e dei generi!
La violenza è strutturale: l’eteropatriarcato è alla base della cultura
capitalistica e colonialista e garantisce l’organizzazione della società secondo rapporti di sfruttamento che rispondono alle logiche del profitto. Il transfemminismo rompe le certezze delle relazioni su cui si basa la società patriarcale, restituendo relazioni inedite, favolose e dissidenti. Per questo crediamo che sia importante discutere della legge su omolesbotransfobia: non ci interessa l’inasprimento delle pene a costo zero, vogliamo vedere riconosciuta la natura sistemica della violenza (l’eterosessualità obbligatoria) e chiediamo interventi strutturali per sradicarla a partire da educazione e prevenzione. Inoltre, la discriminazione non è un fatto meramente culturale, produce disuguaglianza sociale e materiale, per questo chiediamo reddito di autodeterminazione e accesso a salute, casa, istruzione per ognun*: per transitare fuori dai vincoli famigliari, patriarcali e omosociali.

Siamo in piazza per la depatologizzazione delle transizioni e delle vite trans e non binarie: superiamo la legge 164!

Siamo in piazza in solidarietà con il movimento Black Lives Matter e con tutte le resistenze queer, femministe, antirazziste, antifasciste
globali, dal Rojava alla Palestina al Brasile. Qui e ora combattiamo contro il razzismo sistemico e istituzionale e in alleanza con le soggettività lgbtiqueer migranti e razzializzate: vogliamo l’abolizione delle legislazione razzista e securitaria, permesso di soggiorno europeo, decolonizzazione della cultura e della società.

Siamo sierocoivolte e da questa prospettiva guardiamo alla salute: il ruolo dei servizi di prossimità e community-based nella cura dell’hiv e la lezione post pandemia fanno emergere la necessità di un ripensamento del welfare nazionale e regionale. Che si tratti di medicina territoriale, preventiva di residenze anziani, salute mentale, carceri, strutture di accoglienza va superata la visione disciplinare che crea spazi separati in cui isolare e concentrare “l’Utente”. Chiediamo accesso alla salute pubblica, alla prevenzione, alle terapie senza discriminazioni per le persone trans, razzializzate e marginalizzate. Lottiamo contro lo stigma che ancora ci colpisce come sieropositive.

Lottiamo contro lo stigma che ancora ci colpisce come puttane. Siamo libere di sperimentare le nostre sessualità in relazioni multiple. Il sex work è un “lavoro” e prima di tutto è un lavoro di/del genere perché la relazione di cura/seduzione che si costruisce è parte del servizio che viene venduto. Il sex work è lavoro e come tale necessita di diritti e tutele: più viene invisibilizzato, maggiore è la violenza verso chi lavora. Le leggi attuali sono insufficienti perché criminalizzano la nostra attività e quindi i nostri corpi, per questo lottiamo per la totale autodeterminazione e decriminalizzazione del sex work.

Sarà una piazza “statica”, safer, nel rispetto della salute e della cura collettiva, come condiviso anche a livello di tutto il coordinamento transfemminista queer 2020 Marciona. Quindi useremo la nostra creatività per segnare lo spazio, per rendere safer la piazza, riappropriandoci in forma queer dei dispositivi di protezione individuale in modo da trasformarli in tecnologie di prevenzione e autocura collettiva.

La piazza sarà safer e attraversabile da tutt*, batterà al ritmo delle
nostre rivendicazioni e dei suoni di WoWo , RYF, Miss Schneider (Erica Jane Schneider), Favolosa Corale WannaQueer e StaMurga – Ottimista e antifascista

 

Punto di vista di B-Side Pride su Violenza di genere e dei generi

Partiamo dalle nostre esperienze di vita e dall’intersezione tra diverse traiettorie di oppressione per costruire un posizionamento critico rispetto al binarismo di genere obbligato e naturalizzato così come alla costruzione del genere. Dall’inizio alla fine della nostra vita veniamo socializzat@ come uomini e donne, riconducendo l’identità di genere al sesso assegnato alla nascita. Tale binarismo è dato per assunto in quanto prima cellula su cui si fondano le strutture della società eteropatriarcale: la coppia eterosessuale, la famiglia, e a seguire tutti i corpi sociali.

Il mantenimento del binarismo di genere, in regime di eterosessualità obbligatoria, è strettamente necessario alla riproduzione sociale e si trova alla base di ogni forma di violenza di genere e del genere. Questi due tipi di violenza condividono lo stesso campo discorsivo e sono strettamente legati alle modalità in cui la disparità di potere organizza la violenza strutturale. La violenza di genere si manifesta, dal momento che il genere maschile detiene il privilegio e lo esercita in forma di dominio e prevaricazione, sottomettendo – a partire dalle donne – ogni altra soggettività “subalterna”; mentre la violenza del genere si genera dalla normalizzazione e dalla naturalizzazione del comportamento eterosessuale e dell’identità di genere a partire dalle caratteristiche fisiche e riproduttive del corpo che si abita, per cui tutti i comportamenti che non riflettono la norma sociale, di conseguenza, si considerano “devianti” e sono esposti a varie forme di violenza sociale, da quella fisica all’isolamento. Dalla parzialità e pluralità del nostro vissuto ci è chiaro che la violenza è strutturale e si articola e si riproduce in tutti i luoghi che quotidianamente attraversiamo e nelle relazioni che intessiamo.
Il patriarcato è alla base della cultura capitalistica e colonialista ed è determinante poiché garantisce l’organizzazione della società secondo rapporti di sfruttamento che rispondono alle logiche del profitto e dell’accumulazione capitalistica. Il sistema si alimenta e trae vantaggio economico dallo sfruttamento della donna e del suo lavoro riproduttivo e di cura non retribuito, del quale è resa unica responsabile e nella cui vita ha forti ripercussioni pratiche. Il capitalismo si avvantaggia, inoltre, di altre forme di subordinazione culturale basate sul genere, sulla classe e sui continui processi di razzializzazione al fine di mantenere lo status quo e l’ordine economico dedito al profitto di pochi. Il controllo della sessualità e della riproduzione diventano due strumenti determinanti nel sostentamento del sistema capitalistico, andando a ridefinire con nettezza i confini dei nostri corpi e le loro possibilità.

“Il buon padre di famiglia” e il “bravo e onesto cittadino” sono state le due figure maschili che si sono scambiate il ruolo di guida nella società fino ad adesso. La loro guida è stata silenziosa ma efficace: un personaggio caricaturale a cui assomigliare, a cui dare il volto dei protagonisti della cultura pop e dei modelli scolastici. Un uomo che non deve chiedere mai, e allo stesso tempo che ha bisogno di una donna da proteggere con cui completare la sua vita. Un uomo che non può piangere, e che deve dimostrare la sua forza ad ogni costo. Un uomo così è il prototipo su cui le nostre relazioni si sono infrante, i nostri diritti calpestati, le nostre soggettività non riconosciute, le nostre fragilità usate come debolezze. L’amante geloso, che ama così tanto da uccidere, non è tanto diverso dal capo di stato che per amore del suo paese deve combattere “con ogni mezzo necessario”, anche se questo significa guerra e il calpestio dei diritti umani.
In Italia siamo tristemente abituat@ a vivere episodi di violenza sulle donne e sulle persone queer: deteniamo inoltre il primato in Europa per omicidi di persone trans, in costante aumento rispetto agli anni precedenti. Le famiglie e gli affetti sono spesso i primi ad essere gli autori delle violenze, che durante la reclusione causata dalla pandemia di Covid abbiamo visto crescere esponenzialmente.
A partire dall’infanzia e adolescenza, in cui famiglia e scuola sono centrali per lo sviluppo della persona, ci si vede inquadrat* in un sistema di regole precise, che disciplinano i nostri corpi e le nostre vite in ogni particolare: assistiamo costantemente a episodi di bullismo omofo e a un sistema educativo che riproduce il binarismo di genere, mentre invisibilizza strutturalmente forme diverse di soggettività. L’abuso psicologico, lo stress e l’insicurezza rispetto alla realtà scolastica sono troppo spesso una realtà bruciante per le persone queer, che si vedono sprovviste di strumenti per reagire davanti a situazioni tutt’altro che adeguate al benessere psicofisico della persona. All’università ci si confronta ancora una volta con saperi eteronormativi e coloniali, che rimuovono sistematicamente donne e soggettività non conformi: dai corsi di medicina, in cui in corpi di donne, persone trans e intersex vengono letti solo in un’ottica patologizzante, a quelli di pedagogia, la cui struttura riflette fortemente l’impianto familistico indispensabile per la riproduzione sociale del sistema capitalistico. Ancora una volta le persone trans sono tra i soggetti più colpiti dalle asimmetrie che caratterizzano gli spazi universitari: basti pensare alla Carriera Alias, fornita solo in alcuni atenei nel panorama accademico italiano.
Nel nostro paese siamo ancora una volta abituat@ alla presenza fortemente ingerenze delle associazioni cattoliche e antiabortiste, soprattutto nei corsi di medicina: caso emblematico è quello del Campus Biomedico di Roma che presenta nel suo Statuto riferimenti all’aborto come “come crimini in base alla legge naturale”.
Il controllo dei corpi delle donne e delle soggettività non conformi si esprime anche attraverso la negazione del diritto alla salute. Questo è particolarmente evidente ancora una volta nel caso dell’aborto, che viene costantemente osteggiato attraverso la criminalizzazione della pratica abortiva, caratterizzata da un fortissimo stigma. L’obiezione di coscienza in alcune regioni raggiunge percentuali altissime, come il Molise dove le percentuali di ginecologi obiettori è del 96,4%, la Basilicata dove è dell’88%, la Sicilia con 83,2%, Bolzano con 85,2%: questi numeri si traducono nell’impossibilità fattuale di abortire, rendendo ancora più evidente la sottrazione continua alle donne dei propri diritti riproduttivi e non riproduttivi. In questo giocano senza dubbio un ruolo fondamentale il saldo monopolio della riproduzione nelle mani dello Stato-Nazione e l’ingerenza della Chiesa Cattolica negli ospedali e nei consultori, che collaborano per lo stesso obiettivo: il mantenimento di ogni cellula su cui si basa la società patriarcale, a partire proprio dalla famiglia e dalla procreazione al suo interno.
Questo quadro generale spiega bene anche lo scarso utilizzo della RU486, arrivata in Italia solo nel 2009 e a cui si ricorre solo nel 17,8% dei casi. La pillola, per quanto sia un metodo molto meno invasivo, viene generalmente scartata in favore dell’aborto chirurgico, con conseguente ospedalizzazione della persona e ulteriore patologizzazione della stessa. Una della battaglie più importanti di questi anni, portata avanti da Non Una di Meno insieme a collettivi come Obiezione Respinta e da reti come quella di ginecologh@, ostertich@ e professionist@ sanitarie di Pro-Choice, è stata proprio la rivendicazione per il diritto all’aborto libero, sicuro e gratuito, che nei tempi del COVID-19 si è rafforzata, concentrandosi sull’adozione sistematica della RU486 e sui servizi di telemedicina per la pratica abortiva, particolarmente impellenti nel momento che stiamo vivendo.
E se in questa fase ci siamo ripetut@ molto che non vogliamo tornare alla normalità perché era il problema, neanche in tema di relazioni esiste una normalità, monolitica e normativa, a cui vogliamo tornare: la società capitalista e patriarcale, infatti, prevede solo una forma di codificazione di queste ultime, ossia la coppia monogama eterosessuale basata sull’amore romantico, che viene rappresentata come unico modello possibile. Sappiamo bene che non esistono forme migliori di altre: l’unità di misura non è quante persone sono coinvolte, né la definizione che si danno o non si danno o la gerarchizzazione di quei rapporti, ma la comunicazione e la continua ricerca del consenso e del benessere di tutte le persone coinvolte. In questo, la pratica transfemminista gioca un ruolo fondamentale: come un prisma colpito dalla luce, il transfemminismo rompe le certezze delle relazioni su cui si basa la società patriarcale, restituendo per diffrazioni infinite combinazioni inedite, favolose e dissidenti.
Altro spazio di riproduzione dell’esistente determinante sono le istituzioni, di stampo reazionario e bigotto, spesso tristemente caratterizzate dall’utilizzo di politiche securitarie. Nella loro funzione normativa e repressiva sono coadiuvate dalla pervasività di un discorso politico, culturale e sociale che lascia che l’esistente si riproduca senza sconvolgimenti, mantenendo intatte le disuguaglianze e le ingiustizie: un ruolo determinante è giocato dalle realtà di estremismo cattolico, che continuano a diffondere con tutti i mezzi a diposizione retoriche reazionarie strutturate su un impianto familistico, eteropatriarcale e fortemente discriminatorio nei confronti delle soggettività non conformi, attraverso il perpetuamento della fantomatica ideologia gender
Recentissima è la dichiarazione del papa emerito Joseph Ratzinger, che attribuisce all’aborto e ai matrimoni omosessuali come colpevoli della crisi societaria contemporanea.
Tale retorica è stata il fil rouge XIII Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families, WCF) tenutosi a Verona nel marzo 2019 dove si è riunito il movimento globale antiabortista, antifemminista e anti-LGBTQI nonché tre importanti ministri del governo italiano: le istituzioni neofondamentaliste e neoconservatrici risultano ancora una volta essere legate a doppio giro con le forze delle destre neofasciste.
Tuttavia nella città di Verona, una delle più salde roccaforti della destra nel nostro paese, si sono riversate migliaia di attivist*, guidate dalla forza propulsiva del movimento transfemminista di Non Una di Meno e di tantissime altre associazioni e collettivi.
I tribunali risultano come l’ennesimo spazio in cui si determina la riproduzione della società eteropatriarcale. La classificazione binaria maschio-femmina rende inattuabile per tutte le persone non-binarie la possibilità di optare, alle stesse condizioni date per le persone trans, per un genere anagrafico che contribuisca a lenire le sofferenze psichiche derivanti dall’asimmetria tra la percezione di sé quale essere sociale e la contrastante collocazione legale. Lo stato italiano non offre la possibilità alla persona non-binaria di autodeterminarsi, di conseguenza nessun documento rilasciato dallo Stato Italiano prevede l’esistenza delle persone non binarie – agender, genderqueer, fluid etc – obbligandole a dichiararsi sia ufficialmente che in contesti informali col sesso di nascita. Ad oggi il riconoscimento ufficiale, sociale e legale della persona trans in Italia avviene dopo un lungo processo di tappe fisse e prestabilite in cui la persona è obbligata a seguire un iter medico e psicologico imposto dall’alto.

Punto di vista di bside su Hiv+

In un quadro socio economico caratterizzato dalla riduzione delle risorse, emergono tutte le criticità del SSN. Una governance che da un lato accentra sulle grandi strutture ospedaliere e sulle ASL compiti che anche l’OMS suggerisce di de-sanitarizzare, a partire dalla prevenzione e dai servizi community-based come quelli che riguardano le persone con HIV; dall’altro non riesce a garantire uniformità su tutto il territorio regionale (il livello di prestazioni, diagnosi e cura). Rispetto a questo il ruolo dei servizi community-based è complementare ad una strategia di avvicinamento alle popolazioni chiave ma soprattutto fa emergere la necessità di un ripensamento del welfare nazionale e regionale.
Per questo noi rivendichiamo la lotta allo stigma per tutte e tutti come elemento fondamentale, senza la quale non è possibile procedere in nessun’altra direzione. Il diritto alla salute va declinato oggi per poter assicurare garanzia e assistenza all’accesso delle migliori terapie offerte dalla ricerca scientifica (al di là delle esigenze di “budget” della singola struttura sanitaria), è necessaria inoltre una gestione del benessere e della salute delle persone appartenenti alle popolazioni chiave che invecchiano (co-morbosità) come pazienti cronici e necessitano di un monitoraggio che spesso è demandato all’auto-organizzazione del singolo paziente. Queste risposte vanno date in una scala di intervento più generale, in cui vi sia un’implementazione dei servizi di prossimità a partire dalla stabilizzazione e implementazione dei servizi community-based già presenti in Regione, oltre ad un intervento sui consultori nel senso spiegato prima. Da questo punto di vista, l’attuazione degli obiettivi OMS 95-95-95 (Fast-Track City) non è più rimandabile.