Cose che devi sapere sull’uso delle mascherine (fai-da-te e non)

Vogliamo che il gesto di portare la mascherina in pubblico sia un simbolo di cura e di responsabilità collettiva assunta dal basso di fronte a un’emergenza che si può affrontare e superare solo insieme, e non un simbolo di allarme e paura, o un’imposizione che arriva dall’alto senza un perchè. Per questo abbiamo pubblicato questo post, e per questo abbiamo pubblicato un tutorial su come fare una mascherina in casa (anche senza macchina da cucire!).

Questo post contiene:

– AVVERTENZE VALIDE SIA PER LE MASCHERINE CHIRURGICHE CHE PER LE MASCHERINE DI STOFFA

– LE COSE CHE DEVI SAPERE A PROPOSITO DELLA TUA FAVOLOSA MASCHERINA DI STOFFA

Leggi tutto “Cose che devi sapere sull’uso delle mascherine (fai-da-te e non)”

Mascherina favolosa e fai-da-te (anche senza macchina da cucire!)

Ricorda: la mascherina che imparerari a cucire in questo tutorial NON E’ un presidio medico-chirurgico… ma è molto fica.

 

 

 

 

PERCHE’ E’ COSì FICA?

Le mascherine (sia quelle comprate che quelle fatte in casa, anche se in diversa misura) si indossano soprattutto per ridurre il rischio di contagiare gli altri, casomai avessimo contratto il CoronaVirus senza saperlo. Servono quindi soprattutto a proteggere gli/le altr@, ma se le indossiamo tutt@, proteggono tutt@.

Ci sembra che indossare una mascherina in questo periodo sia un gesto di cura e attenzione per gli altri, per la comunità e quindi in definitiva anche per se stess@. Vogliamo che sia un simbolo di cura e di responsabilità collettiva assunta dal basso di fronte a un’emergenza che si può affrontare e superare solo insieme*, e non un simbolo di allarme e paura o un’imposizione che arriva dall’alto senza un perchè. Per noi prenderci cura di noi e delle nostre comunità vuol dire anche non rinunciare alla  all’espressività, all’iniziativa, alla fantasia, alla critica…  e per quanto possibile allo stile!

Quando diciamo che questa emergenza si può affrontare solo insieme, non parliamo solo di indossare mascherine o mantenere la distanza fisica dalle altre persone, ma anche della cura, della solidarietà, della creatività che ci serve e ci servirà per sopravvivere a tutto ciò, e della capacità collettiva di mettere in discussione con forza le politiche sanitarie, sociali ed economiche che ci hanno portato all’emergenza in corso. Per questo motivo, in questo tutorial usiamo un panuelo fucsia, simbolo che la lotta transfemminista che portiamo avanti in NonUnaDiMeno non si ferma con l’epidemia.

Continua a leggere questo articolo per vedere il tutorial e saperne di più sull’uso di una mascherina fatta in casa. Leggi tutto “Mascherina favolosa e fai-da-te (anche senza macchina da cucire!)”

Piazza frocialellatrans – come funziona

Da questo link o dal menù in alto a destra si accede alla Piazza frocialellatrans: si tratta di una videochat nella quale si entra senza doversi registrare, dove puoi incontrare altri/e lettori/lettrici di questo blog che casualmente si trovano lì nello stesso momento.

La videochat non è controllata o moderata da nessuno: proprio come in una piazza, può passarci chiunque. Decidi consapevolmente se mostrare il tuo viso, il tuo vero nome, informazioni personali ecc. La chat si svuota ogni volta che ti scolleghi (ma non è detto che le altre persone che erano collegate non abbiano salvato screenshot o semplicemente non vadano a riferire quello che hai scritto/fatto… proprio come in una piazza).

Se entri usando il computer, non hai bisogno di scaricare alcuna app, devi solo consentire al tuo browser di accedere alla telecamera e/o al microfono. I browser che funzionano meglio al momento sono Chrome e Chromium. Se entri usando il telefono, devi scaricare e installare jitsi da GooglePlayStore.

C’è anche una chat testuale che ti permette di scrivere messaggi visibili a tutte le persone che sono nella “piazza” in quel momento.  Cliccando sul menù che compare sulla finestra del video di uno specifico utente (da computer), o su ____________ (da telefono) puoi però accedere a un’opzione che ti permette di inviare messaggi privati solo a lui/lei.

I messaggi privati compariranno nel flusso dei messaggi della chat pubblica, ma saranno scritti in rosso e contrassegnati come “privati”. Questi messaggi sono visibili solo al mittente e al destinatario.

Puoi anche creare una nuova stanza su jitsi e invitare singoli utenti a trasferire lì la vostra conversazione. Ricorda sempre che la stanza sarà accessibile a chiunque abbia l’indirizzo, compreso qualcuno che lo digita per sbaglio, quindi usa un nome originale per la tua stanza: non è raro ritrovarsi in una stanza chiamata “family” e trovarci la nonna di qualcun altro! Se vuoi, puoi proteggere la tua stanza con una password che condividerai solo con le persone che scegli.

Altre informazioni e tuturial: ————————

Punto di vista di B-Side Pride su Violenza di genere e dei generi

Partiamo dalle nostre esperienze di vita e dall’intersezione tra diverse traiettorie di oppressione per costruire un posizionamento critico rispetto al binarismo di genere obbligato e naturalizzato così come alla costruzione del genere. Dall’inizio alla fine della nostra vita veniamo socializzat@ come uomini e donne, riconducendo l’identità di genere al sesso assegnato alla nascita. Tale binarismo è dato per assunto in quanto prima cellula su cui si fondano le strutture della società eteropatriarcale: la coppia eterosessuale, la famiglia, e a seguire tutti i corpi sociali.

Il mantenimento del binarismo di genere, in regime di eterosessualità obbligatoria, è strettamente necessario alla riproduzione sociale e si trova alla base di ogni forma di violenza di genere e del genere. Questi due tipi di violenza condividono lo stesso campo discorsivo e sono strettamente legati alle modalità in cui la disparità di potere organizza la violenza strutturale. La violenza di genere si manifesta, dal momento che il genere maschile detiene il privilegio e lo esercita in forma di dominio e prevaricazione, sottomettendo – a partire dalle donne – ogni altra soggettività “subalterna”; mentre la violenza del genere si genera dalla normalizzazione e dalla naturalizzazione del comportamento eterosessuale e dell’identità di genere a partire dalle caratteristiche fisiche e riproduttive del corpo che si abita, per cui tutti i comportamenti che non riflettono la norma sociale, di conseguenza, si considerano “devianti” e sono esposti a varie forme di violenza sociale, da quella fisica all’isolamento. Dalla parzialità e pluralità del nostro vissuto ci è chiaro che la violenza è strutturale e si articola e si riproduce in tutti i luoghi che quotidianamente attraversiamo e nelle relazioni che intessiamo.
Il patriarcato è alla base della cultura capitalistica e colonialista ed è determinante poiché garantisce l’organizzazione della società secondo rapporti di sfruttamento che rispondono alle logiche del profitto e dell’accumulazione capitalistica. Il sistema si alimenta e trae vantaggio economico dallo sfruttamento della donna e del suo lavoro riproduttivo e di cura non retribuito, del quale è resa unica responsabile e nella cui vita ha forti ripercussioni pratiche. Il capitalismo si avvantaggia, inoltre, di altre forme di subordinazione culturale basate sul genere, sulla classe e sui continui processi di razzializzazione al fine di mantenere lo status quo e l’ordine economico dedito al profitto di pochi. Il controllo della sessualità e della riproduzione diventano due strumenti determinanti nel sostentamento del sistema capitalistico, andando a ridefinire con nettezza i confini dei nostri corpi e le loro possibilità.

“Il buon padre di famiglia” e il “bravo e onesto cittadino” sono state le due figure maschili che si sono scambiate il ruolo di guida nella società fino ad adesso. La loro guida è stata silenziosa ma efficace: un personaggio caricaturale a cui assomigliare, a cui dare il volto dei protagonisti della cultura pop e dei modelli scolastici. Un uomo che non deve chiedere mai, e allo stesso tempo che ha bisogno di una donna da proteggere con cui completare la sua vita. Un uomo che non può piangere, e che deve dimostrare la sua forza ad ogni costo. Un uomo così è il prototipo su cui le nostre relazioni si sono infrante, i nostri diritti calpestati, le nostre soggettività non riconosciute, le nostre fragilità usate come debolezze. L’amante geloso, che ama così tanto da uccidere, non è tanto diverso dal capo di stato che per amore del suo paese deve combattere “con ogni mezzo necessario”, anche se questo significa guerra e il calpestio dei diritti umani.
In Italia siamo tristemente abituat@ a vivere episodi di violenza sulle donne e sulle persone queer: deteniamo inoltre il primato in Europa per omicidi di persone trans, in costante aumento rispetto agli anni precedenti. Le famiglie e gli affetti sono spesso i primi ad essere gli autori delle violenze, che durante la reclusione causata dalla pandemia di Covid abbiamo visto crescere esponenzialmente.
A partire dall’infanzia e adolescenza, in cui famiglia e scuola sono centrali per lo sviluppo della persona, ci si vede inquadrat* in un sistema di regole precise, che disciplinano i nostri corpi e le nostre vite in ogni particolare: assistiamo costantemente a episodi di bullismo omofo e a un sistema educativo che riproduce il binarismo di genere, mentre invisibilizza strutturalmente forme diverse di soggettività. L’abuso psicologico, lo stress e l’insicurezza rispetto alla realtà scolastica sono troppo spesso una realtà bruciante per le persone queer, che si vedono sprovviste di strumenti per reagire davanti a situazioni tutt’altro che adeguate al benessere psicofisico della persona. All’università ci si confronta ancora una volta con saperi eteronormativi e coloniali, che rimuovono sistematicamente donne e soggettività non conformi: dai corsi di medicina, in cui in corpi di donne, persone trans e intersex vengono letti solo in un’ottica patologizzante, a quelli di pedagogia, la cui struttura riflette fortemente l’impianto familistico indispensabile per la riproduzione sociale del sistema capitalistico. Ancora una volta le persone trans sono tra i soggetti più colpiti dalle asimmetrie che caratterizzano gli spazi universitari: basti pensare alla Carriera Alias, fornita solo in alcuni atenei nel panorama accademico italiano.
Nel nostro paese siamo ancora una volta abituat@ alla presenza fortemente ingerenze delle associazioni cattoliche e antiabortiste, soprattutto nei corsi di medicina: caso emblematico è quello del Campus Biomedico di Roma che presenta nel suo Statuto riferimenti all’aborto come “come crimini in base alla legge naturale”.
Il controllo dei corpi delle donne e delle soggettività non conformi si esprime anche attraverso la negazione del diritto alla salute. Questo è particolarmente evidente ancora una volta nel caso dell’aborto, che viene costantemente osteggiato attraverso la criminalizzazione della pratica abortiva, caratterizzata da un fortissimo stigma. L’obiezione di coscienza in alcune regioni raggiunge percentuali altissime, come il Molise dove le percentuali di ginecologi obiettori è del 96,4%, la Basilicata dove è dell’88%, la Sicilia con 83,2%, Bolzano con 85,2%: questi numeri si traducono nell’impossibilità fattuale di abortire, rendendo ancora più evidente la sottrazione continua alle donne dei propri diritti riproduttivi e non riproduttivi. In questo giocano senza dubbio un ruolo fondamentale il saldo monopolio della riproduzione nelle mani dello Stato-Nazione e l’ingerenza della Chiesa Cattolica negli ospedali e nei consultori, che collaborano per lo stesso obiettivo: il mantenimento di ogni cellula su cui si basa la società patriarcale, a partire proprio dalla famiglia e dalla procreazione al suo interno.
Questo quadro generale spiega bene anche lo scarso utilizzo della RU486, arrivata in Italia solo nel 2009 e a cui si ricorre solo nel 17,8% dei casi. La pillola, per quanto sia un metodo molto meno invasivo, viene generalmente scartata in favore dell’aborto chirurgico, con conseguente ospedalizzazione della persona e ulteriore patologizzazione della stessa. Una della battaglie più importanti di questi anni, portata avanti da Non Una di Meno insieme a collettivi come Obiezione Respinta e da reti come quella di ginecologh@, ostertich@ e professionist@ sanitarie di Pro-Choice, è stata proprio la rivendicazione per il diritto all’aborto libero, sicuro e gratuito, che nei tempi del COVID-19 si è rafforzata, concentrandosi sull’adozione sistematica della RU486 e sui servizi di telemedicina per la pratica abortiva, particolarmente impellenti nel momento che stiamo vivendo.
E se in questa fase ci siamo ripetut@ molto che non vogliamo tornare alla normalità perché era il problema, neanche in tema di relazioni esiste una normalità, monolitica e normativa, a cui vogliamo tornare: la società capitalista e patriarcale, infatti, prevede solo una forma di codificazione di queste ultime, ossia la coppia monogama eterosessuale basata sull’amore romantico, che viene rappresentata come unico modello possibile. Sappiamo bene che non esistono forme migliori di altre: l’unità di misura non è quante persone sono coinvolte, né la definizione che si danno o non si danno o la gerarchizzazione di quei rapporti, ma la comunicazione e la continua ricerca del consenso e del benessere di tutte le persone coinvolte. In questo, la pratica transfemminista gioca un ruolo fondamentale: come un prisma colpito dalla luce, il transfemminismo rompe le certezze delle relazioni su cui si basa la società patriarcale, restituendo per diffrazioni infinite combinazioni inedite, favolose e dissidenti.
Altro spazio di riproduzione dell’esistente determinante sono le istituzioni, di stampo reazionario e bigotto, spesso tristemente caratterizzate dall’utilizzo di politiche securitarie. Nella loro funzione normativa e repressiva sono coadiuvate dalla pervasività di un discorso politico, culturale e sociale che lascia che l’esistente si riproduca senza sconvolgimenti, mantenendo intatte le disuguaglianze e le ingiustizie: un ruolo determinante è giocato dalle realtà di estremismo cattolico, che continuano a diffondere con tutti i mezzi a diposizione retoriche reazionarie strutturate su un impianto familistico, eteropatriarcale e fortemente discriminatorio nei confronti delle soggettività non conformi, attraverso il perpetuamento della fantomatica ideologia gender
Recentissima è la dichiarazione del papa emerito Joseph Ratzinger, che attribuisce all’aborto e ai matrimoni omosessuali come colpevoli della crisi societaria contemporanea.
Tale retorica è stata il fil rouge XIII Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families, WCF) tenutosi a Verona nel marzo 2019 dove si è riunito il movimento globale antiabortista, antifemminista e anti-LGBTQI nonché tre importanti ministri del governo italiano: le istituzioni neofondamentaliste e neoconservatrici risultano ancora una volta essere legate a doppio giro con le forze delle destre neofasciste.
Tuttavia nella città di Verona, una delle più salde roccaforti della destra nel nostro paese, si sono riversate migliaia di attivist*, guidate dalla forza propulsiva del movimento transfemminista di Non Una di Meno e di tantissime altre associazioni e collettivi.
I tribunali risultano come l’ennesimo spazio in cui si determina la riproduzione della società eteropatriarcale. La classificazione binaria maschio-femmina rende inattuabile per tutte le persone non-binarie la possibilità di optare, alle stesse condizioni date per le persone trans, per un genere anagrafico che contribuisca a lenire le sofferenze psichiche derivanti dall’asimmetria tra la percezione di sé quale essere sociale e la contrastante collocazione legale. Lo stato italiano non offre la possibilità alla persona non-binaria di autodeterminarsi, di conseguenza nessun documento rilasciato dallo Stato Italiano prevede l’esistenza delle persone non binarie – agender, genderqueer, fluid etc – obbligandole a dichiararsi sia ufficialmente che in contesti informali col sesso di nascita. Ad oggi il riconoscimento ufficiale, sociale e legale della persona trans in Italia avviene dopo un lungo processo di tappe fisse e prestabilite in cui la persona è obbligata a seguire un iter medico e psicologico imposto dall’alto.

Punto di vista di bside su Trans

B-Side Pride lotta per smontare l’idea che esistano due soli generi e che siano naturalmente legati a due soli sessi anatomici, perchè su questa idea si basano l’oppressione e la violenza di genere e dei generi. E’ una lotta che si svolge allo stesso tempo sul piano della cultura, della salute, delle tecnologie biomediche, dell’organizzazione sociale ed economica. Le persone trans sono in prima linea in questa lotta, ma è una lotta che in realtà riguarda tutt*, perchè anche se in modi e in misura diversa, tutt* siamo oppress* dall’imperativo sociale di adeguarci ai canoni dei due generi imposti. Per lo stesso motivo, il punto di vista trans è prezioso in tutti gli ambiti della nostra lotta e non lo releghiamo alle questioni “specificamente trans”, come troppo spesso accade.  
L’esperienza trans è molto variegata e complessa. Ci sono persone trans* che si ritrovano in immaginari non binari e che vogliono essere riconosciute come tali. Ci sono persone trans* che pur percependosi soggettivamente al di fuori della categoria binaria uomo/donna, sentono il bisogno di un riconoscimento sociale, legale o medico che qualcosa di binario ce l’ha, perchè lo desiderano o semplicemente perchè è l’unica soluzione sostenibile per loro in un  contesto sociale in cui la presentazione di genere non conforme alla norma è severamente punita. E ci sono persone trans che si percepiscono come assolutamente donne o assolutamente uomini, che sentono propria la narrativa di essere nat* nel corpo sbagliato. Sia le persone non binary che le altre possono avere bisogno e desiderio di intervenire sul loro corpo con cosmetici, ormoni, chirurgia e altro. Non rivendichiamo nessuno di questi vissuti come l’unico possibile o l’unico autentico e rifiutiamo narrative escludenti che implicitamente o esplicitamente suggeriscono che non sei “veramente” trans se non vuoi intraprendere alcuni dei passaggi medici o legali classicamente associati ad una transizione. D’altra parte, rifiutiamo quei discorsi che suggeriscono che l’identità non binaria sia in qualche modo più rivoluzionaria, più destabilizzante per il sistema dei generi, o più… “cool”. Il sistema di genere in cui viviamo si fonda sulla costruzione sociale naturalizzata che esistano “naturalmente” solo due generi,  ma anche e soprattutto sul fatto che il genere è assegnato dall’esterno a partire dal momento in cui nasci sulla base dei genitali. Uscire dalla casella assegnata alla nascita è innegabilmente destabilizzante per il sistema.
Sul piano individuale, non ci sembra abbia senso definirci “binary” / “non binary” in base alle tecnologie del corpo che decidiamo di usare o non usare, nè tanto meno in base alla percezione e lettura altrui. Sul piano collettivo, la nostra visione è anti-binaria non perchè siamo tutt* di genere fluido, ma perchè politicamente ci battiamo per costruire una cultura in cui i generi non siano imposti, in cui la creatività nell’espressione di genere non sia sanzionata, in cui le tecniche e le tecnologie biomediche siano al servizio del benessere e dell’autodeterminazione delle persone e non a sorveglianza dei confini fra “maschile” e “femminile” e a servizio del mantenimento del sistema sociale per come è. 
Vivere ed esprimere un genere diverso da quello assegnato alla nascita, o diverso dai due generi canonici, non è di per sè un processo drammatico e doloroso: sono i pregiudizi, le discriminazioni, la violenza del contesto intorno a farlo diventare tale. Lottare contro tutto questo e creare reti di solidarietà e mutuo riconoscimento trans, frocie e lelle è un  modo per far emergere la nostra euforia di genere, il piacere di esprimere il genere che sentiamo più nostro insieme alle/agli altr*, alla faccia di chi vorrebbe trasformarlo in tragedia. 
          
      
Anche il lavoro di psicologi/e che dovrebbe essere un servizio per la salute, garantito e accessibile per le persone trans come per tutt*, una risorsa di cui potersi avvalere se se ne sente il bisogno e se lo si sceglie, e non un’imposizione. 
Oggi per accedere alla chirurgia le persone trans devono ottenere l’autorizzazione di un tribunale, per avere gli ormoni devono avere la ricetta di un medico specialista, e secondo il protocollo applicato nella maggior parte d’Italia prima di averla devono necessariamente vedere uno psicologo per almeno 6 mesi. Per cambiare il sesso anagrafico e il nome, poi, bisogna affrontare un altro iter in tribunale, dove l’operazione chirurgica di rimozione degli organi riproduttivi è ancora considerata da molti giudici la “prova” decisiva. Oltre a questo le persone trans affrontano ogni giorno discriminazioni nell’accesso al lavoro, alla casa, ai servizi sanitari. 
Ci battiamo insieme: 
per essere liber@ di vederci riconosciuta la nostra identità ed espressione di genere senza discriminazioni
per essere liber@ di scegliere come attuare il nostro percorso di transizione, senza intermediari giuridici
per la gratuità delle terapie ormonali sostitutive e mantenimento di ogni trattamento medico-chirurgico, per garantire il nostro pieno benessere psico-fisico e la nostra salute sessuale 
per poter cambiare autonomamente i nostri dati anagrafici, con la sola nostra attestazione 
per trovare finalmente nel discorso pubblico e nei media rappresentazioni non pietistiche e drammatiche delle persone trans 
per fermare gli interventi medici su neonati e minori intersex! Per il diritto dei neonati intersex di vedersi assegnato un genere neutro o di non vedersi assegnato alcun genere, fino alla libera scelta dell’interessat@
per fermare ogni tipo di terapia riparativa per orientamento sessuale, identità di genere ed espressione di genere, 
per vedere rispettata l’identità trans in ogni contesto sociale, dalle scuole ai posti di lavoro al seggio elettorale ai servizi sanitari, e di conseguenza per tutti i cambiamenti necessari in questo senso nella legislazione nazionale ma anche nella legislazione locale, nell’organizzazione dei servizi, degli uffici, degli spazi, nei regolamenti, nelle prassi, nelle abitudini e nella cultura. 
per avere tutt@ accesso a casa, reddito e diritti sul lavoro! Casa e reddito sono condizioni materiali minime per il nostro benessere: un ambiente domestico ostile, il venire cacciat@ di casa per la nostra identità o la difficoltà di trovare un lavoro sono ostacoli strutturali ai nostri percorsi e alle nostre transizioni.
B Side Pride aderisce alla piattaforma per la riforma della legge 164  https://mit-italia.it/una-proposta-di-piattaforma-per-la-riforma-della-legge-164-82/          

Il punto di vista di B-Side Pride su Migrazioni, Asilo, Antirazzismo

B-side pride crede nella libertà di transitare attraverso i generi e attraverso i confini. 
Froci, lesbiche, trans, dissidenti sessuali e donne in cerca di libertà si muovono da ogni parte del mondo – che sia dal Marocco o dalla Libia o dalla provincia italiana – alla ricerca di un posto più accogliente dove vivere.
 
Nei luoghi di arrivo ricostruiscono reti di affetto e solidarietà che ci mostrano come la famiglia basata sul matrimonio e i legami di sangue non è l’unica forma di vita possibile.  
 
Le migrazioni di massa sono un processo che non si può fermare, e che affonda le radici nell’iniqua distribuzione della ricchezza fra paesi del cosiddetto Nord e Sud del mondo (e in piccolo anche fra Nord e Sud d’Italia). Questa distribuzione non equa non è dovuta a cause naturali ma agli esiti storici del colonialismo perpetrato dai paesi europei. Inoltre molte persone fuggono dalle guerre, nelle quali i paesi occidentali hanno spesso pesanti responsabilità. 

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Punto di vista di bside su Hiv+

In un quadro socio economico caratterizzato dalla riduzione delle risorse, emergono tutte le criticità del SSN. Una governance che da un lato accentra sulle grandi strutture ospedaliere e sulle ASL compiti che anche l’OMS suggerisce di de-sanitarizzare, a partire dalla prevenzione e dai servizi community-based come quelli che riguardano le persone con HIV; dall’altro non riesce a garantire uniformità su tutto il territorio regionale (il livello di prestazioni, diagnosi e cura). Rispetto a questo il ruolo dei servizi community-based è complementare ad una strategia di avvicinamento alle popolazioni chiave ma soprattutto fa emergere la necessità di un ripensamento del welfare nazionale e regionale.
Per questo noi rivendichiamo la lotta allo stigma per tutte e tutti come elemento fondamentale, senza la quale non è possibile procedere in nessun’altra direzione. Il diritto alla salute va declinato oggi per poter assicurare garanzia e assistenza all’accesso delle migliori terapie offerte dalla ricerca scientifica (al di là delle esigenze di “budget” della singola struttura sanitaria), è necessaria inoltre una gestione del benessere e della salute delle persone appartenenti alle popolazioni chiave che invecchiano (co-morbosità) come pazienti cronici e necessitano di un monitoraggio che spesso è demandato all’auto-organizzazione del singolo paziente. Queste risposte vanno date in una scala di intervento più generale, in cui vi sia un’implementazione dei servizi di prossimità a partire dalla stabilizzazione e implementazione dei servizi community-based già presenti in Regione, oltre ad un intervento sui consultori nel senso spiegato prima. Da questo punto di vista, l’attuazione degli obiettivi OMS 95-95-95 (Fast-Track City) non è più rimandabile.

Il punto di vista del B-Side Pride sul sex work

In questa fase storica di generalizzato precariato lavorativo il sex working sta diventando una risorsa per moltissime soggettività marginalizzate, soprattutto quando le vite si incrociano con le condizioni di classe, genere e provenienza. Non dimentichiamo che tantissime generazioni di frocie e trans, cacciate dalle loro famiglie d’origine, si sono ritrovatx nelle condizioni di vendere prestazioni sessuali per poter sopravvivere.

Al di là delle singole esperienze, il sex working ha rappresentato e rappresenta una delle poche possibilità di emancipazione per moltx di noi, fornendo un reddito immediato. Tuttavia ciò ha rappresentato un’ulteriore fonte di stigmatizzazione: frocie, trans, migranti e precarie, oltre a omofobia, transfobia e sessismo, devono fronteggiare lo stigma della puttana, o puttanofobia.

Il sex working è un “lavoro” e prima di tutto è un lavoro di/del genere: sappiamo bene come anche nei lavori cosiddetti “normali” ci venga richiesto di mettere in campo la seduzione, la persuasione, la bella presenza, l’abbigliamento adatto ad appagare o a sollecitare le aspettative. Tutto questo è parte integrante del nostro lavoro, perché la relazione di cura/seduzione che si costruisce è parte del servizio che viene venduto. Il sex working è lavoro e come tale necessita di diritti e tutele. Troppe volte il lavoro sessuale svolto in casa, in strada o online, è soggetto a violenze, proprio perché non riconosciuto e quindi condotto in situazioni. Le leggi attuali sono insufficienti perché criminalizzano la nostra attività e quindi i nostri corpi per questo lottiamo per la totale autodeterminazione e decriminalizzazione del sex working.

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